"ABIET, ABIET,ABIET....."PIANGONO GLI ABISSINI. L' impiego degli agressivi chimici avviene sistematicamente in più occasioni.Documenti inediti,telegrammi di Mussolini venuti finalmente alla luce, e testimonianze straniere, ne danno oggi piena e autorevole conferma.
Contro queste truppe nel dicembre del 1935 sul Tacazzè, il comandante del fronte Sud Graziani autorizzò l' uso del' iprite.************
Abiet, abiet: la cantilena - in amaraico significa pietà - sgorga come un pianto dalle labbra dei combattenti abissini. Non si trovano medicine, le ambulanze sono state distrutte dalle bombe: è impossibile portare il minimo sollievo ai malcapitati che si dibattono in atroci sofferenze. E il medico Marcel Junod, delegati della Croce rossa internazionale, assistendo alla tragedia può soltanto annotare sul taccuino l'orrore di un'aggressione misteriosa scatenata con l'aviazione. Sui corpi affiorano vesciche che presto si corrompono in bruciature sanguinolenti. Quoram, aprile 1936: non è la prima né l'ultima volta in cui l'iprite colpisce. Il solfuro di cloroetile sparso a tonnellate sulle armate e sui villaggi dell'imperatore Hailè Selassiè durante la guerra d'Etiopia. L'impiego dei mezzi chimici da parte fascista (le fonti straniere evitano di solito di qualificare « italiani » gli autori dell'uso dei gas) avviene sistematicamente e su vasta scala, nonostante le smentite ufficiali: documenti e testimonianze portati finalmente alla luce ne danno oggi piena e autentica conferma. Mussolini stesso, con i suoi perentori telegrammi ai comandanti dello schieramento italiano, offre la sua parte di verità. L'esperimento di offensiva chimica era stato preparato da tempo. Sin dal luglio 1935 si era dato vita a un cosiddetto « Servizio K » con magazzini nella piana di Ala (Sorodocò) nei pressi della grande arteria Nefasit-Dccamerè per facilitare l'afflusso dei materiali da Massaua. In tale zona vengono sistemati depositi di aggressivi chimici; magazzini per materiali tecnici come lanciafiamme, nebbiogeni, irroratori; impianti per la produzione e compressione dell'azoto; impianti di miscelamento per la composizione dei liquidi da lanciafiamme; depositi artifizi fumogeni, aggressivi e bombe a mano fumogene e incendiarie; depositi di materiali per la bonifica chimica del terreno; deposito materiale protettivo individuale come maschere, vestiti protettivi, calzari, guanti; laboratorio per riparazione di materiali vari. In via sussidiaria agiscono i depositi minori di Adigrat e di Adua, costituiti in seguito. Il materiale arriva rapidamente: nell'agosto 1935 per 250 quintali, in settembre per 3000, in ottobre per 400, in novembre per 1100 e in dicembre per 50; così nel gennaio 1936 per 80 quintali, febbraio 250, aprile 1000, maggio 40 fino a raggiungere il complessivo di 6170 quintali. In quanta parte esso viene utilizzato? Secondo la relazione finale del Servizio chimico non si è avuto modo di « esplicare in periodo operativo la propria specifica attribuzione nel campo offensivo » ma « utilissima fu dal lato sperimentale e di studio l'attività svolta nel comportamento dei principali aggressivi e materiali protettivi ». Sembrerebbe quasi avanzare l'idea di una sperimentazione a fronte vuoto. Tuttavia si ammette che « poiché durante la condotta della campagna non fu dato di constatare da parte delle truppe etiopiche l'impiego dì gas venefici, tale arma non fu nemmeno da noi impiegata, e l'attività sì limitò a distribuire i materiali tecnici in dotazione ai reparti lanciafiamme ».
Un automezzo del "Plotone Chimico" in azione durante la guerra etiopica. I soldati indossano la maschera antigas e una speciale divisa anti-ipritica per attraversare un territorio cosparso di iprite e bonificarlo.**********
Probabilmente, larga parte del materiale chimico non viene neppure registrata nei depositi perché si utilizza senza indugi appena giunta dall'Italia. Contro le « orde abissine » si impiegano per la prima volta i gas asfissianti e vescicanti dopo lo smacco di Dembeguinà (15 dicembre 1935} dove ras Immirù costringe gli italiani a ripiegare fin sotto le porte di Axum. Mussolini telegrafa a Oraziani: « Sta bene impiego gas nel caso V, E. lo ritenga necessario per supreme ragioni difesa »; e il comandante del Fronte Sud non lascia cadere la possibilità di contrastare le offensive etiopiche ricordando anche un telegramma del 27 ottobre di questo tenore: «Autorizzato impiego gas come ultima rado per sopraffare resistenza nemico e in caso di contrattacco. Mussolini ».Così sul Tacazzè, qualche giorno dopo, appare il gas come nuova arma tattica. Il Negus protesta davanti alla Società delle Nazioni, appena avutane notizia, con questo telegramma: « Il 23 dicembre hanno fatto uso contro le nostre truppe, nella regione del Tacazzè, di gas asfissianti e tossici, ciò che costituisce una nuova aggiunta alla lista già lunga delle violazioni fatte dall'Italia ai suoi impegni internazionali» (si allude al protocollo del 7 giugno 1925).La strada per l'iprite è ormai aperta e Mussolini il 28 dicembre da disposizioni pure a Badoglio: « Dati sistemi nemico autorizzo V. E. all'impiego, anche su vasta scala, di qualunque gas e dei lanciafiamme ».
Una legittima ritorsione per i « sistemi » adottati dal nemico, allora? La propaganda fascista insiste su' questo punto accusando gli abissini di utilizzare pallottole dum-dum; inoltre si parla di mulilazioni sui prigionieri con riferimento specifico al « caso Minniti », un giovane aviatore precipitato dopo aver mitragliato un villaggio: invece di arrendersi dopo essere stato circondato aveva continuato a sparare sui soldati nemici e (pare) sui civili accorsi, facendosi poi massacrare. Una ritorsione comunque sproporzionata. I gas vengono lanciati attraverso l'artiglieria oppure con aerei, in fusti o con appositi nebulizzatori. La denuncia etiopica (riportata dal «Journal Officiel» della Società delle Nazioni, numero 151, anno 1936) così riferisce: « All'inizio, durante la, fine dell'anno 1935, l'aviazione italiana lanciò sulle mie armate - parla Hailè Selassiè - bombe di gas lacrimogeno; i loro effetti furono di scarsa efficacia. I soldati impararono a disperdersi in attesa che il vento dissolvesse i gas tossici.
Appositi recipienti contenenti neutralizzanti liquidi o in polvere.*********
L'aviazione italiana ricorse allora all'iprite; barili di liquido venivano lanciati sui gruppi armati, ma anche questo sistema non si rivelò efficace: il liquido non colpiva che qualche soldato e i barili, a terra, mettevano in guardia dal pericolo. Fu all'epoca dell'operazione di accerchiamento di Macallè che il comando italiano, temendo una disfatta, applicò il procedimento che ho ora il dovere dì denunciare al mondo. Dei diffusori furono installati a bordo degli aerei in modo da vaporizzare, su vaste distese di territorio, una sottile pioggia micidiale. A gruppi di nove, di quindici, di diciotto, gli aerei si succedevano in modo che la nebbia emessa da ciascuno formasse una coltre continua. Fu cosi che, a partire dalla fine dì gennaio, i soldati, le donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i laghi, i pascoli, furono di continuo spruzzati con questa pioggia mortale ». La conferma è contenuta in un rapporto a firma generale Bernasconi il 12 gennaio (Comando delle Forze armate della Somalia, « La guerra italo-etiopica - Fronte Sud », Addis Abeba 1937) che riferisce: «Alle 6 est iniziata partenza aerei bombardamento. Partecipano 24 apparecchi dei quali sei caricanti gas. Lanciato chilogrammi 1700 gas e 7000 bombe calibro vario. Gas lanciato guado Bandu e riva destra Ganale Doria sino Uadi Baccasu ». Tra i primi lanci e la fase più intensa Mussolini dispone una brevissima tregua. Telegramma segreto del 6 gennaio 1936, a Badoglio: « Sospenda l'impiego dei gas sino alle, riunioni ginevrine a meno che non sia reso necessario da supreme necessità offesa e difesa ».Ciò accade poco dopo nel corso della prima battaglia di Tembien il cui incerto esito fa meditare a Badoglio addirittura il ritiro da Macallè nonostante gli ordini pervenuti da Roma (19 gennaio): « La manovra è bene ideata e riuscirà sicuramente. Autorizzo V. E. a impiegare tutti i mezzi di guerra - dico tutti - sia dall'alto come da terra. Massima decisione. Mussolini ». E con fermezza, Badoglio fa irrorare ripetutamente di iprite gli armati di ras Cassa. Il nuovo comandante in capo non se la sente però di inasprire la lotta fino a scatenare una guerra batteriologica, anche per il timore di vittime tra le stesse truppe italiane, e Mussolini finalmente accetta un consiglio rispondendo seccamente, il 20 febbraio, con un « Concordo con quanto osserva V. E. circa l'impiego della guerra batteriologica ». E non se ne parla più. Resta aperta, invece, la partita con le armi chimiche. L'esercito del Negus, dopo la sconfitta di Mai Ceu, è costretto a ritirarsi e il 4 aprile si avvicina al lago Ascianghi. La mattina è splendida, le colonne procedono senza timori verso la riva orientale in dirzione di Mekarè anche perché nei giorni precedenti aerei italiani avevano lanciato manifestini invitandoli a non avere paura: il nemico - si leggeva in essi - è l'Imperatore e non altri. All'improvviso arrivano i bombardieri e scaricano oltre 73 tonnellate di esplosivi misti a iprite. Un carnaio. Hailè Selassiè, salvo per miracolo, racconta l'episodio in questi termini, e forse con qualche esagerazione allo scrittore francese Marcel Briaule (su « Vu », Parigi, luglio 1936): «Uomini, donne, bestie da soma si abbattevano a terra, colpiti dagli scoppi delle bombe o ustionati mortalmente.
Un aereo italiano sorvola la zona dell' Amba Alagi durante la campagna etiopica.Graziani si era servito di bombardieri per lanciare iprite e gas asfissianti, in fusti o mediante appositi nebulizzatori, sulle truppe di Hailè Selassie.**********
I feriti urlavano per il dolore. Quelli che avrebbero potuto sottrarsi a questo macello venivano presto o tardi raggiunti dalla sottile pioggia, diffusa dagli aerei. Ciò che uno scoppio di bombe aveva cominciato, il veleno concludeva. In realtà era inutile tentare di difendere il corpo dal liquido corrosivo. » Altri, gettatisi tra le acque nel tentativo di ristorarsi dalle bruciature, perirono per l'alto grado di inquinamento del lago. Le ripercussioni sull'opinione pubblica mondiale inducono alfine Mussolini a sospendere i lanci; egli telegrafa perciò a Graziarli, il 10 aprile: « Non faccia -dico: non faccia - impiego di mezzi chimici sino a nuovo ordine ». Questo arriva l'8 giugno - Addis Abeba è stata conquistata da oltre un mese - per terrorizzare i partigiani che continuano la lotta dopo la partenza del Negus. Telegramma segreto a Graziani: « Per finirla con i ribelli, come nel caso di Ancober, impieghi i gas». E intere regioni considerate ribelli vengono irrorate di iprite per rappresaglia. Ma la situazione internazionale impone cautele. E spesso si deve ricorrere all'astuzia per prevenire scandali. Un episodio del genere è raccontato in un libro del giornalista Angelo De Boca. Frugando nel postale Cairo-Londra, fermo allo scalo di Centocelle, alcuni agenti scoprono fotografie sospette che riguardano il conflitto italo-abissino. Qualche minuto dopo le fotografie sono sul tavolo del dirigente della sezione etiopica del Servizio informazioni militari, e poco dopo, su quello del professor Castellano, a quel tempo il miglior specialista italiano di malattie tropicali. Castellano osserva le foto e dice che molto probabilmente gli etiopici fotografati sono stati colpiti da liquidi vescicanti. La situazione si presenta oltremodo imbarazzante. Il professore aggiunge però che anche i lebbrosi presentano lo stesso quadro clinico, e mostra, a riprova, altre fotografie. Davanti a questa rassomiglianzà il dirigente del Servizio informazioni militari prende un'improvvisa decisione. Saranno recapitate regolarmente a Londra le foto che riproducono i lebbrosi. E quando, qualche giorno dopo, i giornali inglesi pubblicano le « tragiche immagini ». si avrà buon gioco nel dimostrare che si è trattato soltanto di un « ignobile trucco », ordito dalla propaganda antifascista. Non sempre il gioco riesce. Due corrispondenti di un giornale parigino inviano dal fronte italo-etiopico documentazioni con aerei che volano raso terra « irrorando instancabilmente con l'iprite tutte le colture, distruggendo ogni vita vegetale, riducendo così gli animali alla fame, rodendo i piedi e i polmoni delle popolazioni terrorizzate ».Poi ci sono le memorie dei delegati della Croce rossa inviate alla Società delle Nazioni. Il dottor Schuppler: « Il 14 gennaio 1936 sono state impiegate bombe a gas; queste bombe hanno ucciso venti contadini e io ho curato circa quindici casi di persone colpite dal bombardamento a gas, fra cui due bambini; le bruciature sono provocate da gas vescicante utilizzato a sud del colle di Alagi».Il dottor Melly: « Tra il 7 e il 22 marzo curammo dai due ai trecento casi di bruciature da iprìte. La maggior parte dei gassati era rimasta momentaneamente acciecata e dovemmo installare una cllnica speciale ». Il dottor Ulland: «Alle 8 di stamane due apparecchi da bombardamento hanno sorvolato Irgalém; alle 17 due ammalati sono condotti nel nostro campo; entrambi soffrivano dì una violenta infiammazione agli occhi con blefarite ed epifora e di una acuta irritazione alle mucose del naso e della gola. Uno di essi presentava anche una profonda bruciatura della pelle alla pianta dei piedi. In città trovammo altre quattro persone che presentavano esattamente gli stessi sintomi; soffrivano terribilmente ». E il dottor Junod: « Dovunque, sotto gli alberi, uomini distesi. Sono soldati. Mi avvicino e vedo sui loro piedi, sulle loro membra spellate, orribili bruciature che sanguinano. La vita sta andandosene dai loro corpi scacciata dall'iprite ». Da parte fascista si tende a ridurre la portata di questa strategia. « In verità, per la battaglia del Tembien, onde snidare gli abissini ricoverati in caverne -ha avuto modo di confermare il maresciallo Badoglio in una conversazione con la nipote Anna Vallati, sua biografa - feci fare per un paio di ore un tiro con gas lacrimogeni e sternutanti. Non vennero mai usati altri gas, tranne una volta sola che, per esperimento, si fece un tiro ad iprite, in una zona fuori dalle linee ordinarie di tiro, constatando che l'iprite si era volatizzata ». Due testimoni inglesi ma, questo è importante, entrambi filofascisti ammettono senza reticenze la guerra chimica portata avanti dallo Stato maggiore italiano. Sono James Strachey Barnes e Herbert L. Matthews. Il primo ha scritto: « Gli italiani non hanno mai negato di aver usato i gas. Essi adoperarono l'iprite quando cominciarono a sentirsi legalmente in diritto di farlo, dopo che gli abissini avevano violato spesso altre convenzioni, con la mutuazione dei prigionieri, l'impiego delle dum-dum e l'abuso della Croce rossa ». Il secondo ha riferito: « Mister Harrison, corrispondente del New York Times, che era un chimico specializzato in gas velenosi, riconobbe l'odore dell'iprite che. era stata gettata tra Altomata e Gobbo » e durante un soggiorno di tre settimane a Quoram vide « quasi ogni giorno bombardamenti e lancio di iprite da parte di aerei italiani ». Episodi di una guerra che solo oggi, a trentacinque anni di distanza, sono venuti alla luce in modo inconfutabile.
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