Alle 5,30 del 29 giugno 1916, con mezz'ora di ritardo sull' orario previsto, tremila bombole vengono aperte contemporaneamente dagli ungheresi.
Accompagnato da un acuto sibilo si riversa sulle nostre trincee il fumo del cloro e del fosgene.
Vittime del gas in una trincea del San Michele dopo l' attacco austriaco.Duemila fanti italiani passarono dal sonno alla morte.
Estate 1916, fronte italo-austriaco sull' lsonzo. È l'alba, chiara e fresca, del 29 giugno. Alle 5 del mattino nelle trincee italiane che vanno dalla Cima 4 del Monte San Michele fino a sud del villaggio diruto di San Martino del Carso c'è il cambio delle sentinelle: qualche parola a mezza voce (gli austriaci sono vicini), il suono metallico di una baionetta che urta contro i sassi, pochi rumori sommessi. Nei camminamenti, nelle caverne delle doline e nelle ridotte i soldati della 21a e della 22a divisione dell'XI corpo d'armata dormono i sonni scomodi ed agitati della prima linea. Fuori il sole non è ancora giunto a sfiorar gli arbusti bruciacchiati di Bosco Cappuccio e da est soffia un vento leggero ma incostante: si annuncia una bella e calda giornata. Di là della « terra di nessuno », fitto di forre e di magri e bassi cespugli, si stendono le trincee austriache, lievemente più in alto rispetto a quelle italiane. Lì, durante la notte, due reggimenti scelti ungheresi, appartenenti alla 20a « Honved », hanno compiuto nel più assoluto silenzio un meticoloso, terrificante lavoro di morte che ora stanno per portare a termine: calzando scarpe con suole di feltro per non fare rumore, il viso coperto dalla guttaperca delle maschere antigas con gli occhiali di mica, hanno trasportato a braccia con mille precauzioni, fin nella trincea più avanzata, seimila grosse bombole di metallo, ognuna pesante mezzo quintale e dotata di uno strano beccuccio di rame, sottile, rotondo, acuminato. Pazientemente, per ore ed ore, gli ungheresi hanno sistemato le bombole su trespoli di legno lungo una dozzina di chilometri di trincee.
In queste tre fotografie una tragica visione delle trincee sul monte San Michele dopo l' attacco con i gas del 29 giugno 1916.Molti soldati furono colti dalla morte nel sonno.
Dietro di loro, nel frattempo, s'è ammassata la fanteria, pronta a scattare in avanti. Adesso sono pronti: girando le manopole di ciascuna bombola potranno lanciare, contro le lineo italiane, una mortale nube di gas asfissiante capace di sterminare 150.000 persone. Ma il vento -che d'improvviso, per brevi tratti, muta direzione - costringe gli ungheresi a rinunciare all'offensiva chimica nel settore nord del fronte italiano ed a concentrare invece lo sforzo in quello sud, dove sono attestate le brigate « Pisa » e « Regina ». È così che alle 5,30 - con mezz'ora di ritardo sull'orario previsto e stabilito dal feldmaresciallo Gelb von Cramon - tremila bombole vengono aperte contemporaneamente e dai loro beccucci esce con violenza, accompagnato da un acuto sibilo, il fumo giallo-verdastro del cloro e quello quasi incolore del fosgene. Un minuto, due minuti, non di più («tener presente» dice un opuscolo distribuito a quest' epoca fra i soldati italiani « che la nube asfissiante raggiunge le nostre trincee con la velocità del vento che spira e che, supponendo detta velocità di tre metri al secondo, la nube percorre in un minuto primo la distanza di circa duecento metri »).
Un ufficiale dell' esercito italiano con una delle prime maschere antigas,"la maschera polivalente a protezione unica" fabbricata dalla Sanitaria Società Anonima, di Milano
Poi, dalle linee italiane, si leva il grido: « Gas, gas, gas! ». Immediatamente, nei camminamenti retrostanti, gli fa eco un assordante concerto metallico: l'allarme viene esteso a tutto il fronte battendo ritmicamente con le baionette su barattoli vuoti di conserva, pentole sfondate, gavette inservibili e bossoli di « shrapnels » appesi ad un filo di ferro nei posti di osservazione. Purtroppo, nonostante gli avvertimenti, non soltanto il gas lanciato dagli austriaci si muove con una velocità superiore al previsto ma le maschere - in dotazione ai nostri soldati fin dall'aprile precedente - non servono per questi tipi di aggressivi chimici: il modello, rudimentale.seppur capace di resistere ai vapori di cloro è del tutto nullo di fronte al fosgene, un gas dal leggero puzzo di legno ed erba marcia e con effetti terribili quanto immediati sui polmoni. Entro pochi minuti (non sono ancora le 6) la nuvola tossica investe le trincee italiane e quasi settemila uomini - 6.250 soldati e graduati di truppa e 182 ufficiali prevalentemente appartenenti alle brigate « Regina » e « Pisa » - sono colpiti: duemila uomini circa passano dal sonno alla morte. Nella nube asfissiante, che oscura anche il sole nascente dietro le cime, avanzano come fantasmi gli ungheresi dell'« Honved », i volti coperti dalle maschere, per mettere in pratica quanto hanno imparato in un corso speciale di tre settimane a Krems: lesti come gatti, feroci ed implacabili, penetrano nelle nostre trincee, si avventano sui moribondi e li finiscono con i colpi di una mazza di ferro che portano legata al polso destro. Con calma, metodicamente, avanzano nei camminamenti, e nei ridotti ed abbattono tutti quelli che trovano ancora in vita. Ma i sopravvissuti sono ben pochi. Il cloro ed il fosgene hanno ucciso sull'istante. Così, attraverso le brecce aperte dai gas, la fanteria austriaca può precipitarsi in avanti.
Nelle retrovie italiane l'allarme è appena giunto e il generale Sailer, comandante della brigata « Regina », seguito dal colonnello Gandolfo del 10° reggimento, accorre a riorganizzare la difesa assieme ai pochi superstiti. Due brigate di rinforzo, la « Brescia » e la « Ferrara », giungono sul Monte San Michele per tamponare la falla, e ci riescono aiutate anche dal vento capriccioso che, dopo aver sospinto la nube di gas fin oltre l'Isonzo, soffia ora in senso contrario gettando il tossico nelle file austriache.Dal fondovalle l'artiglieria italiana, rimasta indenne, apre un fuoco di sbarramento sul San Michele, e, in poche ore, riesce prima a contenere l'attacco nemico e poi ad appoggiare i contrattacchi delle fanterie. Nella tragica sera del 29 giugno si debbono contare, nelle nostre file, circa tremila morti per gas; altri quattromila sono rimasti gassati, e di essi una buona parte ricoverata in ospedale finirà poi per morire perché il fosgene che li ha colpiti ha, la proprietà di agire anche in ritardo ma, purtroppo, in modo ineluttabile. Sedici mesi dopo.
Soldati italiani morti asfissiati dal gas nelle trincee del San Michele il 29 giugno 1916 e trasporati nel cimitero di guerra di un paesino sul fronte dell' Isonzo.
Nei giorni che precedono il disastro di Caporetto circola insistente la voce - fra i comandi italiani - che austriaci e tedeschi siano in procinto di scatenare un'offensiva sul nostro fronte dell'Isonzo soprattutto con l'appoggio di un nuovo tipo di aggressivo chimico lanciato con speciali granate anziché sparso attraverso le bombole affinchè la concentrazione mortale di una ristretta zona sia raggiunta più rapidamente e più facilmente. Ma il 16 ottobre il generalissimo Cadorna chiarisce ai comandanti subordinati: «È stato detto che i gas che userà il nemico sono micidialissìmi, che esercitano una azione corrosiva, che irritano fortemente le mucose; ma queste sono voci... Ai soldati si dica e si ripeta che la. nostra maschera è la migliore in uso presso tutti gli eserciti, e che nessun danno può risultare se viene, impiegata ». Il generale Capello, tuttavia, mostra di nutrire qualche dubbio in proposito e ad una conferenza militare convocata due giorni più tardi - il 18 ottobre - afferma, preoccupato: « // nemico, nelle sue ultime azioni sul fronte inglese, ha fatto largo uso di granate speciali e di emissione di gas da bombole. Occorre essere pronti ad una tale eventualità... ». Poi cinque giorni dopo - il 23 ottobre - evidentemente sulla base di nuovi rapporti che gli sono giunti dai comandi alleati avverte in un'altra conferenza: « ...Pare che il nemico scateni l'attacco basandosi sull'effetto che produrranno i gas dei quali farà uso... ». In realtà sono preoccupazioni tutt'altro che infondate. Nel 1934, una pubblicazione del Ministero italiano della Guerra affermerà che l'iniziale successo degli austro-germanici nello sfondamento di Caporetto fu dovuto in gran parte all'iniziativa chimica dei tedeschi. L'attacco contro le posizioni italiane viene sferrato nel punto che è sempre stato considerato il più debole dello schieramento - cioè fra Tolmino e la conca di Plezzo - tenuto dalle truppe della II Armata. Alle 2 del mattino del 24 ottobre 1917 - una notte tenebrosa, con pioggia in basso e gelido nevischio sulle vette - l'artiglieria austriaca apre il fuoco di distruzione e, poco dopo, inizia il lancio di granate cariche di « Croce azzurra », la gentile denominazione data alla difenilcloroarsina, gas estremamente tossico e capace di attraversare qualunque maschera. Sull'altipiano a sud-est del Ravelnik gli austro-germanici hanno adottati i « proiettori Livens » (dal nome del tenente del Genio inglese che li ha inventati): si tratta di un tubo di acciaio, chiuso ad una estremità e munito di una carica di lancio con dispositivo elettrico per l'accensione sul quale è piazzata la bombola a gas. Mille di questi proiettori -che hanno un calibro di 18 centimetri su canna liscia - vengono impiegati in questo settore del fronte e lanciano granate di fosgene e di difenilcloroarsina. « / colpiti » scriverà Kraft von Dellmensingen « morirono istantaneamente ». Un testimone oculare, il tenente austriaco di artiglieria Fritz Weber, racconta: « Un sibilo acuto esce dal caos e va a finire ai piedi della piccola altura di Ravelnik... Gli italiani si sono rimessi dalla sorpresa e rispondono con un rabbioso fuoco di controbatteria.. Ma poco a poco esso diminuisce fino a cessare del tutto. Il gas "Croce, azzurra" comincia dunque ad agire. La valle, fino alla stretta di Saga, nuota nelle sue nubi mortali... Il bombardamento si fa sempre più intenso. Laggiù, attorno alle batterie italiane della seconda e della terza linea, nessuno deve essere, più in vita... ». Il racconto di Weber è confermato dal rapporto del nostro Ministero della Guerra secondo il quale « 894 proiettori tedeschi, postati lungo un chilometro, lanciarono le loro bombe mortali a sud di Flitsch, sull' Isonzo, uccidendo in breve 600 militari italiani ed aprendo così la breccia all'invasione ». E aggiunse: « Solo pochi tra i colpiti si erano messi la maschera; la posizione dei cadaveri lasciò capire, che la morte era sopraggiunta fulminea ». La nube mortale, uscita da un migliaio di bombole o lanciata con i proiettori, riempie il fondovalle con la sua ondata gassosa, una nebbia atroce che brucia i polmoni e che investe la linea di fronte tenuta dalla 50" divisione del generale Arrighi. La strage avviene soprattutto fra gli uomini del terzo battaglione dell' 87° reggimento della brigata « Friuli » che viene annientato: 600 soldati muoiono sul colpo avvolti dai vapori giallo-verdastri del gas. Ha scritto Mario Silvestri che il comando del terzo battaglione, con tutti i militari addetti, passò in un lampo dalla vita alla morte. Infatti dall'ufficio operazioni della brigata « Friuli », rimasti senza notizie di questo reparto ed impensieriti perché il telefono squillava a vuoto, inviarono un ufficiale in esplorazione sulle prime linee. Questi tornò poco dopo e riferì che tutto andava bene e ogni cosa era a posto: i soldati apparivano affiancati in posizione, maschera al volto, fucile tra le mani: «.Non si era curato (l'ufficiale) di avvicinarsi abbastanza, per scuoterne qualcuno. Si sarebbe accorto che erano ormai statue senza vita.
Tipo di maschera antigas in uso nell' esercito tedesco nella prima guerra mondiale.
Erano le 4 del mattino del 24 ottobre I9Ì7 ». Una testimonianza ancora più terrificante è quella del ten. Weber che, dopo il lancio dei gas, avanzò con i suoi artiglieri nelle prime linee italiane: « ... Laggiù, in ampi e numerosi ricoveri, giacciono circa ottocento uomini. Tutti morti. Alcuni pochi, raggiunti nella fuga, sono caduti al suolo con la faccia verso terra. Ma i più sono raggomitolati vicino alle pareti dei ricoveri, il fucile tra le ginocchia, la divisa e l'armamento intatti. In una specie di baracca, si trovano altri quaranta cadaveri. Presso l'ingresso stanno gli ufficiali, i sottufficiali e due telefonisti con la cuffia ancora attaccata, un blocco di fogli davanti, la matita in mano. Non hanno neppure tentato di usare la maschera. Devono essere morti senza neppure rendersi conto di quanto stava accadendo. Poco più oltre raggiungiamo una caverna, il cui ingresso è mascherato da una fila di sacchetti di sabbia. Ci apriamo un varco e penetriamo nell'interno facendo scivolare il cono luminoso delle nostre lampadine lungo le pareti umide. In fondo scorgiamo una specie di magazzino di armi e di vestiario. Nell'angolo più interno c'è però un groviglio di cadaveri. Dall'oscurità emergono delle striscie gialle, dei volti lividi... ».Nel varco aperto dall'aggressivo chimico penetrano immediatamente la 22a divisione Schiitzen e la 3a divisione Edelweiss puntando al fondovalle per mantenere in efficienza la breccia alle forze del feldmaresciallo Krauss. Il gas, nella medesima giornata del 24 ottobre, è usato dal gruppo Scotti - costituito dalla 1° divisione austro-ungarica e dalla 5a prussiana - contro postazioni di artiglieria alpina sul Krad Vhr. Qui l'« allarme gas » è causato dallo scoppio di proietti d'artiglieria. Le maschere, subito indossate, di lì ad un quarto d'ora portano alla congestione: i soldati si sentono soffocare; la miscela di fosgene, e di difenilcloroarsina irrita tanto la pelle del volto da spingere gli alpini a strapparsela anche per un istante solo ma per la morte è sufficiente. « Sul Krad Vhr » scriverà ai primi di dicembre, esattamente il 6, il giornale tedesco « Frankfurter Zeitung » « le vittime del gas furono trovate a mucchi ». In realtà oggi sappiamo che vi era qualche esagerazione nella cronaca del giornale tedesco, dovuta a ragioni di propaganda, in quanto la limitata concentrazione e l'ambiente montano non erano favorevoli del tutto all'impiego dei gas.Il gas, ancora, è impiegato dal battaglione chimico germanico della divisione Jàger, all'inizio del novembre 1917, sul fronte del XXII corpo d'armata italiano sull'Altopiano di Asiago. Stavolta si tratta di iprite, ed il numero dei morti - sebbene mai precisato - risulta comunque notevole. Ben 600.000 proietti tossici, tutti a bromuro di cianogeno e a bromoacetone, sono lanciati dagli austriaci durante la «battaglia del solstizio» (15-24 giugno 1918) che segna lo sforzo supremo ed ultimo degli Imperi Centrali contro l'Italia: nel solo settore del Piave ne impiegano oltre 170.000. Altri tiri a gas, infine, vengono ripetuti fino all'armistizio del novembre; e la prova della preparazione nemica in materia di guerra chimica sta nel fatto che le truppe italiane troveranno nei depositi austriaci al di là di Vittorio Veneto oltre due milioni di proietti a gas senza contare quelli che si rinverranno sul Carso e nell'Alto Friuli. Narrando la battaglia sul Piave alla quale aveva preso parte nella seconda metà del giugno 1918 l'austriaco Fritz Weber, già citato, così scrive: « ... / pochi prigionieri (italiani) caduti in nostra mano... raccontano cose che ci demoralizzano profondamente. Il gas, che avrebbe dovuto esercitare la sua azione micidiale, per una profondità di parecchi chilometri, era stato pressoché inefficace... perché gli italiani disponevano di maschere perfette, cosa che noi non avevamo previsto! ». Effettivamente era stato distribuito alle truppe il respiratore inglese, che diede ottimi risultati. In un breve saggio edito dal Ministero della Guerra italiano nel 1934, e intitolato « Lo sviluppo dell'arma chimica durante la guerra passata » sono spiegate le ragioni di questa scelta: « Certo le condizioni dell'industria chimica nostra erano talmente insufficienti ed embrionali che le difficoltà incontrate nella produzione e nel rifornimento dei mezzi difensivi ed offensivi ostacolarono grandemente ogni nostra volontà e genialità ». Nel maggio 1915,'all'inizio- del conflitto mondiale, l'Italia dava in dotazione ai suoi soldati una maschera antigas ad imbuto - poi conosciuta come il tipo Clamician-Pesci- costituita da strati di garza imbevuti di una soluzione acquosa di carbonato di sodio e carbonato di potassio. Questa maschera proteggeva soltanto il naso e la bocca del combattente, forse perché lo Stato Maggiore italiano non sapeva che, fin dall'anno precedente (1914), i francesi possedevano bombe lacrimogene, che agivano cioè sugli occhi, cariche di bromoacetone e cloroacetone. Alcuni mesi dopo lo scoppio della guerra, resa evidente la necessità di difendere in modo adeguato anche gli occhi dei soldati, il nostro Comando Supremo faceva distribuire - almeno nelle prime linee dei fronti - occhiali speciali costruiti in mica. Malgrado tutta la sua macchinosità non era questo il peggior difetto della maschera tipo Giamician-Pesci: esso, semmai, andava ricercato nel fatto che le sue sostanze neutralizzanti si esaurivano con grande rapidità (tempo medio: un'ora) sicché ogni combattente doveva essere munito di una boccetta di soluzione acquosa con la quale, di tanto in tanto, inumidire gli strati di garza del suo respiratore. La quasi totale insufficienza di questo tipo di maschera adottato dal nostro esercito lo rivela la strage di Monte San Michele del giugno 1916. Le terribili conseguenze del cloro (che agisce sull'apparato respiratorio, produce una tosse spasrnodica e, appena passa nel sangue e nei tessuti, ha effetti narcotizzanti sui centri nervosi) sono in parte neutralizzate dagli strati di garza imbevuti di carbonato di sodio e carbonato di potassio. Il fosgene, invece, coglie purtroppo del tutto impreparati i nostri soldati. Questo gas, velenosissimo al pari dell'ossido di carbonio, ha effetti mortali e « ritardati » anche se assorbito in piccolissime dosi. Ad esempio, il chimico italiano dottor Fenaroli, durante esperienze fatte col fosgene, subì un avvelenamento che, in apparenza, risultò debolissimo. Si riprese, infatti, dopo una ventina di minuti e potè ritornare a casa. Il chimico cominciò a sentirsi male nella notte e l'indomani morì. Dopo Monte San Michele l'Italia decide di adottare la maschera « M-2 » francese, che aveva ben quaranta strati di garza: venti erano imbevuti di glicerina, solfato di nichelio, urotropina e carbonato di sodio; gli altri venti di olii e glicerina. L'industria privata perfeziona ulteriormente questo respiratore, prima aumentando gli strati di garza da 40 a 64; poi unendo gli occhiali alla fascia di gomma (o guttaperca') che cingeva la testa del soldato e creando così davanti alla bocca una piccola camera d'aria in modo da permettere una respirazione migliore: per concorde giudizio dei combattenti, infatti, correre o lavorare con la maschera sul volto era una sofferenza quasi insopportabile e, dopo un quarto d'ora o mezz'ora di questo tormento, ben pochi riuscivano a resistere. Un nuovo tipo di maschera, il tipo polivalente « Z », non ha miglior fortuna e lo dimostra la strage subita nella conca di Plezzo il 24 ottobre 1917. A quell'epoca, in realtà, il .nostro Comando Supremo è ancora impreparato alla guerra chimica - almeno per quanto riguarda l'aspetto difensivo - e si limita a prescrivere ai fantaccini della prima linea, in caso di attacco nemico con i gas, di infilarsi il respiratore al più presto e di toglierselo al più tardi possibile.
Un ufficiale italiano esamina una delle mazze ferrate con le quali gli austriaci finivano i nostri soldati colpiti da gas asfissianti nelle trincee.
Il soldato, indossata la maschera, doveva cercare di renderla aderente al volto chiudendo con la vaselina ogni spiraglio vicino alle orbite e agli zigomi; poi, all'avvicinarsi della nube tossica, accendere falò, bombe incendiarie, lanciafiamme e altri mezzi dilatanti; infine, preparare una soluzione di soda al 5 per cento e irrorarne la nuvola di gas con una pompa. Tutto questo era comunque pressoché nullo dinanzi al fosgene e alla difenilcloroarsina che, con un'alta concentrazione come si otteneva col lancio di granate, rendevano subito inservibili i filtri delle maschere. Probabilmente il nostro esercito aveva sbagliato. nel problema di fondo, cioè nella scelta del tipo di maschera, benché proprio due studiosi italiani, il professor Icilio Guareschi dell'Università di Torino e il fisiologo Amedeo Herlitzka, anch'egli di Torino ed entrambi appartenenti alla « Commissione torinese per lo studio dei gas e dei mezzi di difesa », avessero proposto fin dal 1915, ma invano, un respiratore del tipo inglese che consisteva in una maschera collegata per mezzo di un tubo flessibile ad un serbatoio contenente il depuratore dell'aria. Il professo! Guareschi, tralasciando il numero degli strati di garza, aveva poi sottolineato più volte la particolare proprietà del carbone di legna ad assorbire gas di qualsiasi specie e natura: il cloro nella misura del 30-60 per cento; il bromo 100 per cento; il fosgene l'80 per cento; la cloropicrina 94 per cento; il bromuro di benzile 92 per cento. Ma solo dopo Caporetto il Comando Supremo abolì la maschera polivalente « Z ». Trascorrono ancora circa .quattro mesi e finalmente - nel gennaio 1918 - l'esercito ha in dotazione il respiratore inglese, di produzione britannica, che peraltro i tedeschi usavano fin dal 1916. Questa maschera possiede un filtro con sostanze assorbenti (carbone attivo ottenuto dalla torrefazione del legno di betulla e dei semi di frutta) nonché parocchi strati di cotone idrofilo. Inoltre il respiratore ha una valvola a farfalla per espellere l'aria viziata ed ogni soldato viene munito di un tubetto di pasta speciale da spalmarsi sulla celluloide delle lenti per ovviare al grave inconveniente dell appannamento degli occhiali. La maschera è applicata alla testa a mezzo di tiranti e, nella parte interna, ha una pinza stringinaso affinchè la respirazione avvenga soltanto attraverso la bocca. Dall'inizio del 1918 il Comando Supremo estende questo modello - come avevano già fatto altri eserciti; ad esempio quelli americano e portoghese - anche ai cavalli e agli animali da tiro e da basto impiegati sulla linea di combattimento e nelle immediate retrovie. La protezione del cavallo risulta abbastanza semplice anche perché questo animale è meno sensibile all'azione dei gas asfissianti in genere a causa della più vasta estensione delle sue vie respiratorie e di quelli lacrimogeni che, di solito, agiscono sui suoi occhi in maniera molto debole: è quindi sufficiente dotare i cavalli di una maschera rudimentale che protegga le loro narici poiché essi respirano soltanto dal naso. Più pericolosi, invece, risultano gli effetti vescicatori dell'iprite dato che determinano ampie e profonde lesioni sulla pelle dell'animale, specie vicino agli zoccoli, nei punti di pressione dei finimenti e dove più abbondante è la traspirazione. Anche i cani, impiegati al fronte per portare messaggi, sono dotati di piccole maschere di garza e gli stessi piccioni viaggiatori vengono custoditi entro gabbie speciali ricoperte di tela impregnata di olio di lino cotto. Il tragico successo ottenuto dalle offensive austriache con i gas il 29 giugno 1916 e nell'autunno dell'anno seguente era stato per la verità facilitato dal fatto che il soldato italiano mancava di una « disciplina antigas ». Sarebbe stato necessario che ogni combattente avesse avuto, in precedenza, un addestramento alla maschera, l'uso della quale comporta un notevole sforzo dei polmoni per mantenere ai tessuti l'indispensabile approvvigionamento di ossigeno. La prima e più durevole impressione che il soldato provava indossando il respiratore era quella del soffocamento; l'atto più istintivo era quello di strapparselo; se il combattente non sapeva dosare il ritmo del proprio sforzo rischiava facilmente di perdere i sensi. La maschera provocava disturbi generali (violente emicranie) sia per il suo peso che per la pressione sulla testa: ad esempio, chi la indossava poteva sopportare con una certa facilità la fame, non così la sete perché la resistenza del filtro assorbente alla libera respirazione causava una quasi immediata arsura. Soprattutto non si era riusciti a convincere il soldato dell'estrema utilità della maschera; la scarsa fiducia che il fantaccino nutriva per questo cupo ordigno di gomma e di latta faceva sì che il respiratore, al momento di adoperarlo, fosse spesso in cattivo stato, mancante di qualche parte, inadatto insomma alla necessità. Ben altra era stata la preparazione negli eserciti alleati; la « disciplina antigas » fra gli inglesi ha raggiunto nel 1918 una perfezione tale che quando a marzo, presso Amiens, i tedeschi rompono il fronte britannico, su 10.000 soldati sbandati 6000 perdono il fucile ma soltanto 800 smarriscono la maschera antigas. L'industria chimica italiana si mobilita fin dall'autunno 1916 per la preparazione dei mezzi protettivi e, specialmente, per la produzione di aggressivi chimici: in quell'anno a Napoli, presso i laboratori dell'istituto di farmaceutica dell' Università, si comincia a fabbricare - sotto la direzione del professor Piutti - la cloropicrina, ch'è un gas mortale che irrita fortemente le mucose ed agisce anche come lacrimogeno.
Un reparto di operaie francesi fotografate al lavoro in una fabbrica di maschere antigas nell' ottobre del 1916
Ben presto la produzione di questo aggressivo tocca la media di una tonnellata al giorno. Nel 1918, nel solo stabilimento di Rumianca, si fabbricano sei tonnellate giornaliere di fosgene: durante la prima guerra mondiale la produzione totale di gas, da parte dell' Italia, è di circa 13.000 tonnelate Se l'Italia è colta di sorpresa dai massicci impieghi di gas da parte del nemico una delle cause va ricercata nel fatto che, durante il primo anno di guerra, gli austriaci hanno fatto ricorso in modo del tutto sporadico e saltuario all'uso di granate lacrimogene e soffocanti: a diversità delle plaghe della Champagne i monti del Trentino e degli altipianii si prestavano poco, anche per ragioni meteorologiche, ad un fruttuoso impiego dell'arma chimica. Tuttavia, alla strage di Monte San Michele il nostro esercito risponde con una rappresaglia: essa avviene nell'agosto 1917, durante l'undicesima battaglia dell'Isonzo, dopo che gli austro-tedeschi avevano impiegato di nuovo, il giorno 19, granate a gas nel settore di Castegnevizza. L'azione italiana è condotta bene e l'aggressivo impiegato ottiene pienamente lo scopo. Una relazione austriaca, contraddistinta dal nr. 22615, precisa: « La durata dei tiri a gas italiani era molto diversa, gli ingassamenti di determinate località duravano generalmente più ore. In un caso il nemico tirò per nove ore a gas, impiegando 3.500 granate speciali, ma di massima le batterie furono esposte ai gas per più di cinque ore. Il tiro veniva eseguito per la maggior parte di notte, o nelle prime ore del mattino, per cogliere nel sonno gli uomini, per ostacolare i rifornimenti, inoltre stancare le truppe con continui allarmi e finalmente perché, nelle ore notturne, vi è maggior calma di vento. Inoltre il tiro notturno a gas promette il massimo risultato possibile, giacché l'attività a difendersi dai gas è minore da parte di truppe piene di sonno, e riesce più difficile di notte riconoscere il tiro a gas dagli altri ».L'esercito italiano ricorre ancora ai gas durante l'ultima battaglia sul Piave quando l'offensiva austriaca del giugno 1918 tenta di assestarci il colpo mortale. Sul Grappa, infatti, il nemico ci aveva strappato il Col Moschin, il Pertica e la prima linea dei Soiaroli ed è in questa località che, il 14 giugno, la compagnia speciale X esegue contro gli austriaci una emissione di cloro e di fosgene con l'impiego di 400 bombe. Tiri a liquidi speciali, da parte italiana, sono compiuti con successo un po' dovunque ed in particolar modo durante la battaglia della Bainsizza. nella piana della Sernaglia e sull'altipiano di Folgaria: qui il 24-25 ottobre viene usata, per la prima volta, l'iprite. In quei giorni erano giunti dalla Francia i primi proietti a iprite, e la divisione francese che era sull'Altopiano di Asiago, li sparò per un'azione dimostrativa contro le posizioni austriache. Furono le ultime nuvole tossiche della Grande Guerra.
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