I "barchini" tra i cannoni di Malta.Sull' onda del successo ottenuto nella baia di Suda dai nostri "barchini"(motoscafi imbottiti di tritolo) un gruppo audace tentò un' attacco la notte del 25 luglio 1941 contro la più inespugnabile fortezza inglese del Mediterraneo.Ma questa volta il gesto temerario si concluse in tragedia.
Il punto scelto per l' attacco:l'imbocco del porto di La Valletta.*********
Malta, l' isola fortezza a due passi dalla Sicilia, la grande base aeronavale degli inglesi, aveva avuto sempre una straordinaria attrazione per gli uomini dei mezzi d' assalto della Marina italiana. L' attrazione che può esercitare sull'animo degli audaci spericolati, l' idea di infliggere un colpo ad un colosso ritenuto intangibile dall' opinione generale. Malta costituiva , ancor più di Gibilterra e di Alessandria d'Egitto, una sfida altezzosa, perenne, così vicina alle porte di casa nostra. Forzare il suo porto, dimostrare che niente era "tabù" per i "siluri umani": ecco il grande sogno, il più ambizioso e orgoglioso dei sogni. Quell' isola era l' emblema della potenza britannica nel Mediterraneo. Praticamente, nel cielo con le sue squadriglie da caccia e sul mare con le più veloci unità della flotta, pronte a balzare sulla preda nel Canale di Sicilia essa controllava il Mediterraneo. Doppia funzione, in difesa e in attacco. Il suo dispositivo bellico era impegnato a proteggere i convogli alleati destinati allo scacchiere egiziano, che spesso a Malta sostavano; allo stesso tempo era impegnato ad attaccare i convogli nemici che portavano rifornimenti e rinforzi alle truppe italo-tedesche in Cirenaica, in Marmarica e sulla direttrice del Canale di Suez. E, infine, la presenza delle unità più potenti della « Home Fleet»: da Malta potevano entrare facilmente e rapidamente in azione alla prima segnalazione di una uscita di una nostra grossa squadra navale. Invano, la Luftwaffe aveva messo la base e l'arsenale sotto un uragano di ferro e di fuoco. Lo sbarramento contraereo era tremendo. L'efficienza di Malta non si attenuava. I mezzi d'assalto, dopo tanto anelare e cogitare degli uomini e dei comandi, finirono col lanciarsi contro il colosso, nella notte fra il 25 ed il 26 luglio 1941. Il risultato fu quello che fu. Ma la decisione fatale si ebbe nel clima euforico di un successo ottenuto dai « barchini » nella baia di Suda. Con l'estendersi del conflitto alla Grecia, gli inglesi avevano occupato l'isola di Creta ed una base navale, appunto in quella baia, l'avevano organizzata anche lì. Incrociatori, cacciatorpediniere e naviglio minore ci avevano fatto il loro nido, da cui operavano su tutto il mare Egeo, molte isole del quale, nell'arcipelago del Dodecaneso, erano allora italiane, con attrezzature notevoli per l'offesa sul Mediterraneo Centrale e Orientale. Anche le corazzate, talvolta, vi sostavano brevemente. È da Suda, così, che comincia il racconto di questo ciclo di storia marinara. Sono di turno i « barchini ». La loro denominazione tecnica era data dalla sigla « M.T.M. », corrispondente a « motoscafi turismo modificati ».
Esercitazione con un barchino.Giunto presso l' obiettivo l' uomo si gettava in acqua sopra un salvagente.********
Un adattamento bellico di motoscafi da corsa. Li costruiva l'ingegner Carlo Cattaneo, nei suoi cantieri specializzati, per la motonautica agonistica. L'idea l'aveva avuta il duca Amedeo d'Aosta, e più tardi suo fratello, il duca di Spoleto, l'aveva realizzata in collaborazione col comandante Giorgis. Caratteristiche essenziali: scafo lungo poco più di cinque metri e largo quasi due, costruito in materiale leggerissimo; motore « Alfa Romeo 2500 »; velocità oraria trentadue miglia; complesso dell'elica e del motore non più « rigido » ma capace di ruotare verso l'alto, sollevandosi in modo da consentire di scavalcare le ostruzioni in superficie; la prua costituita da una carica di tre quintali di esplosivo. Nella manovra dell'attacco, il pilota saltava giù dal mezzo a breve distanza dal bersaglio, dopo avere preso bene la mira e fissato i timoni. Gli operatori dei « barchini » si allenarono al balipedio Cottrau della Spezia, ove erano stati radunati quando, già in atto la prima fase del conflitto mondiale, le probabilità che anche l'Italia scendesse in campo si facevano sempre più consistenti. Fu nel luglio del 1940 che gli equipaggi già « a punto » furono trasferiti nella base siciliana di Augusta. Si parlava insistentemente, fino da allora, di un'azione dei « barchini » su Malta, tanto è vero che arrivarono a più riprese ordini di operare, improvvisamente cancellati l'indomani. Mancavano istruzioni particolareggiate: sarebbe stato come andare alla cieca. L'obiettivo di Malta fu accantonato, infine, per dare la precedenza ad un attacco contro la nuova base nemica di Creta. Questo accadde sotto il comando di quella nobilissima figura di soldato (accoppiata alle qualità di grande organizzatore) che era il capitano di fregata Vittorio Moccagatta, succeduto al comandante Mario Giorgini. Fu lui stesso che studiò i piani della vittoriosa operazione della base di Suda, accompagnando anche personalmente gli equipaggi dei « barchini » di Augusta nella nuova sede, all'isola di Lerò.Quel gruppo era comandato dal tenente di vascello Luigi Faggioni. spezzino, appartenente (come l'indimenticabile Tesei) ad una vecchia famiglia di armatori e di capitani di lungo corso. Al nome di Faggioni, così, rimane legato quel primo, già clamoroso successo dei mezzi di assalto. La partenza per Lerò, prima tappa per l'avvicinamento a Suda, avvenne il giorno di Natale del 1940. Nell'isola, il gruppo si sistemò sul piroscafo « Asmara », carico di carne congelata per il vettovagliamento di tutta la guarnigione, ma ben presto ci fu la seconda marcia di avvicinamento, col trasferimento nell'isola di Starnpalia, più a sud-ovest. I piani erano pronti, le cognizioni acquisite sulle caratteristiche della base nemica erano notevoli. Bisognava soltanto attendere la concomitanza di tre fattori indispensabili per l'impresa: la presenza di importanti unità della « Home Fleet », il mare calmo e una notte illune. Si ebbero due partenze, con le torpediniere « Sella » (comandante il capitano di corvetta Redaelli) e « Crispi » (capitano di fregata Ferruca), designate a condurre i « barchini » alla minima distanza possibile dall'obiettivo: ma seguì sempre un contrordine ed il ritorno alla base. Nervi a fiori di pelle, nell'attesa. In un bombardamento di Stampalia, due uomini del gruppo rimasero feriti. L'azione contro Suda, intanto, era stata di nuovo fissata per il 25 di marzo del 1941. La partenza doveva essere alle ore 16. All'alba ,il bombardamento si rinnovò e ci furono sette morti. I marinai fecero delle targhette con i nomi delle vittime e le applicarono ai « barchini ». Di nuovo erano il « Sella » e il « Crispi » che portavano verso Creta i mezzi e gli uomini. Creta si avvicinava. E così il momento della fatalità. Sarebbero ritornati indietro una terza volta? Non si poteva mai sapere. Il tempo sembrava essersi fermato. Le due torpediniere portavano otto « barchini » e otto piloti, ma Faggioni aveva avuto l'ordine di impiegare sei mezzi soli. Fu necessario procedere al sorteggio perché nessuno degli otto uomini intendeva rinunciare. I cinque piloti sorteggiati ad operare con Faggioni furono: il sottotenente di vascello Angelo Cabrini, il capo-cannoniere Alessio De Vito, il capo-motorista navale Tullio Tedeschi, il secondo-capo Lino Beccati e il sergente Emilio Barberi. Tutto dipendeva, ora, per il segnale del « via », dalla situazione del naviglio inglese nella baia. Le navi avrebbero potuto anche essere uscite nel pomeriggio. Ma durante la navigazione arrivarono, per radio, le ultime notizie sui rilievi della ricognizione aerea. Nessun mutamento. Mezzanotte: le torpediniere si fermano in mare aperto ed i sei « barchini » vengono calati in mare. Arnvederci, buona fortuna. Sono a dieci miglia a levante di Capo Tripiti, per imboccare la baia di Suda i « barchini » devono procedere per due ore ad una velocità di 26 nodi. Gli uomini sono diventati improvvisamente calmi, freddi nella determinazione. Sarà quel che sarà. Sei uomini su sei gusci (reminiscenza dei « gusci » cantati da Gabriele D'Annunzio) in acque nemiche, in balìa del mare e della notte. I « barchini » navigavano in formazione a losanga, quello di Faggioni era in testa. Tutti avanzavano in un raggio di dieci metri. Facevano un baccano infernale, lanciati alla massima velocità. Proprio come motoscafi da corsa. D'altronde, la distanza tra il punto « X » dove le torpediniere li avevano portati e la baia di Suda era notevole e doveva essere coperta prima dell'alba. Faggioni dirigeva la piccola flottiglia alzando, abbassando o roteando le braccia. Sulle maniche aveva fissato dei grossi bottoni fosforescenti. La formazione rimase compatta, la manovra si snodò senza intoppi. Corri e corri, si profilò l'ingresso della baia. Allora l'andatura venne diminuita, fino al minimo, i motori facevano un lieve brontolìo udibile soltanto da pochi metri. I « barchini » abbandonarono la formazione a losanga e assunsero la formazione di fila. L'orologio segnava lei due del mattino. Il grande momento era davvero arrivato. Praticamente Faggioni sapeva ormai tutto di Suda. All'imbocco della baia c'era un primo sbarramento, descritto come facilmente superabile. Tuttavia al centro dell'imbocco c'era un isolotto con un fortino. Bisognava agire con molta cautela. Le fotografie della ricognizione aerea erano risultate preziose, sebbene prese dall'altezza di quattromila metri a causa della forte opposizione della caccia inglese del vicino aeroporto de La Canea. I ricognitori avevano anche individuato le batterie sistemate sui costoni della baia, eccitandone il fuoco con audaci abbassamenti di quota. Piccole luci azzurre (segnali di trasmissione) fiottavano tra l'isolotto e un forte sulla sinistra dell'entrata. I « barchini » si fermarono, con le prue una a ridosso dell'altra. « Sono molto svegli, perbacco! » mormorò Faggioni. Si accesero anche i proiettori di una nave. Gli inglesi del forte e quelli dell'isolotto continuavano a parlare tra loro con le luci bluastre. Non c'era luna, solo il chiarore della stellata. L'ostruzione era fatta di gavitelli uniti da una rete. Il comandante passò per primo, scavalcandolo grazie alla possibilità dei « barchini » di sollevare il blocco delle eliche. Tuttavia un «barchino » rimase impigliato e Faggioni, trovatosi solo, dovè ritornare indietro. La flottiglia si ricompose, e dirigendosi sulla seconda ostruzione, sfruttò il cono d'ombra dell'isolotto, girando sulla destra. Gli assaltatori videro le vedette, ma non furono visti. Nell'affrontare il secondo sbarramento, si trovarono improvvisamente in un fascio di luce. Erano forse i fari di un'automobile che passava sulla strada sopraelevata? Macché. Erano i proiettori di una nave da guerra cui veniva aperta, in quel momento, la porta della baia. I « barchini » erano stati scoperti, allora . No. Anzi: quelle luci dettero agli assaltatori una buona visione dello specchio d'acqua e fecero individuare loro certi preziosi punti di riferimento per l'attacco.Intanto, a velocità minima, assistiti sempre dalla fortuna, i « barchini » si addentrarono nella stretta insenatura, in fondo alla quale, dietro il terzo e ultimo sbarramento, c'erano le navi da colpire. Erano le quattro e mezzo, allorché questa ostruzione si presentò davanti ai sei « barchini », ma non era semplice da superare come le altre. Essa aveva fermato, durante un attacco precedente, i siluri degli aerosiluranti italiani. Faggioni decise di aggirarla. Aveva perfetta conoscenza delle sue caratteristiche. Sull'estrema destra, a pochi metri da terra, c'era una grossa catena che collegava l'ultima boa con il roccione. Impedimento per le navi o per i grossi motoscafi, non per quelle imbarcazioni basse e minuscole. Passarono sotto la catena. A poca distanza c'era una casetta bianca, dove stavano le sentinelle. Le sentivano parlare. Due cani abbaiarono invano. Ora non c'era più che da rilevare bene le posizioni delle navi e da attendere il momento più favorevole per l'attacco. Il sergente Barberi sussurrò al comandante: « Ma davvero siamo già dentro? ». Un altro disse a Faggioni: « Ci fumiamo una sigaretta? ». E lui rispose: « Via. questo sarebbe un po' troppo ». Fece bere, invece, qualche cosa ai suoi uomini: cognac e zucchero. Poi Faggioni inforcò il binocolo. Vide, sulla sinistra, a trecento metri di distanza, la sagoma di un incrociatore. Intravvide una petroliera di grosso tonnellaggio, « indovinò » un bel gruppo di navi mercantili. Per essere sicuri del colpo, occorreva avvicinarsi di più. Il comandante andò da solo, fece una ricognizione accurata, tornò dai suoi uomini e assegnò loro i bersagli.
Tullio Tedeschi(a sinistra) e Angelo Cabrini i due maggiori protagonisti dell' audace impresa.*********
Cabrini e Tedeschi contro l'incrociatore, Ceccati contro la petroliera. Poi gli altri contro i mercantili. In ogni modo fu stabilito che due « barchini », tra i quali quello di Faggioni, rimanessero di riserva, pronti a colpire nel caso che l'attacco contro l'incrociatore non avesse pieno effetto. Si voleva attendere ancora, per il lancio distruttore. Cioè attendere il primo accenno dell'alba, prevista per le 5,18. In quell'attimo i bersagli si sarebbero distinti nettamente. Ma ecco che sull'incrociatore batte la sveglia, echeggiano i sibili dei fischietti, una lanterna si muove in coperta. Allo stesso tempo si accendono le luci verdi e rosse al centro dello sbarramento. Sembra proprio che a bordo si cominci a fare il « posto di manovra » e che la porta dell'ostruzione si debba aprire per l'uscita. Non c'era più tempo da perdere. I « barchini » di Cabrini e Tedeschi si mossero lentamente. La manovra era questa: avvicinarsi nel maggior silenzio possibile fino a centocinquanta metri dal bersaglio, poi a tutta velocità per il balzo decisivo, raggomitolarsi sul sediolo, tirare la maniglia di scoppio che toglie la sicurezza alla carica di trecento chili di esplosivo, bloccare i timoni, dopo essersi assicurati della direzione giusta, a ottanta metri dall'obbiettivo. In quello stesso attimo la spalliera del sediolo si ribaltava indietro tramutandosi in uno zatterino che finiva nella scìa ospitando il pilota. Il « barchino » procedeva nella sua corsa, urtava contro la nave e la carica scoppiava sette secondi dopo, scendendo all'altezza della carena. Lo scopo dello zatterino era quello di salvare il pilota che, altrimenti, se si fosse trovato immerso nell'acqua, sarebbe rimasto ucciso dallo scoppio. Proprio come i pesci nella pesca di frodo con la dinamite. In superficie, si diceva che venisse avvertita soltanto una scossa. Erano stati fatti degli esperimenti con cani. Le povere bestie, però, erano sempre morte. Era la prima volta che gli uomini si trovavano in simile frangente. I « barchini », con effettivo attacco finale, non erano stati utilizzati mai. Erano esattamente le 4.46'. Dovevano trascorrere venti secondi prima che si udisse lo scoppio.
Una carta della baia di Suda con la rotta dei "barchini" e gli obiettivi raggiunti lo " York", una petroliera e due navi mercantili.*********
I « barchini » si avvicinarono in un lampo, ma in quell'istante da bordo dell'incrociatore, udendo il frastuono dei motori, i mitraglieri aprirono il fuoco alla cieca. Spararono in aria, credendo ad un attacco di aerosiluranti. Colpito a morte, l'incrociatore sbandò, stava per capovolgersi. Fu preso poi a rimorchio per essere trascinato nelle vicinissime acque basse, dove la carena spezzata poggiò sopra un fondale di cinque metri.
L' incrociatore inglese York da 10.000 tonnellate, semisdrutto dall' esplosione dei due barchini di Cabrini e Tedeschi, fu preso a rimorchio il giorno dopo.********
Era lo «York» da 10.000 tonnellate, unico incrociatore allora dotato di cannoni da 203. Le altre partenze di lancio furono quasi simultanee. La petroliera e due navi mercantili, per un totale di trentamila tonnellate, colarono a picco. Faggioni vide, all'ultimo momento, un altro incrociatore che si riforniva di carburante, nascosto dalla petroliera. Scagliò il « barellino » contro quello, ma la carica esplose contro un altro ostacolo. Ora gli assaltatori nuotavano nelle tenebre, verso un incerto punto di riunione. Il ciclo cominciava a rischiararsi. « Ricordo che nuotavo accanto a un cesto di verdura, quando una scialuppa si avvicinò e mi raccolse » raccontò il comandante della spedizione. Fu portato a bordo di un piroscafo. Interrogatorio: « Venite da un aereo? ». Glielo lasciò credere. Ancora: « E i vostri compagni? ». Rispose che erano tutti morti. Non era vero. I cinque compagni furono anch'essi catturati, nella baia o sulla costa, nel giro di poche ore. Si ritrovarono tutti nel forte Paleocastro, caserma delle truppe corazzate. Sportivamente, un sergente inglese aveva detto a Faggioni, subito dopo la cattura: « Good work, isn't'it? ». « Un buon lavoro, non è vero? ». E guardava la bolgia del porto. Ma il tono sportivo finì presto. Ostinati, decisi, i sei non risposero nulla. Fu inscenato, nella speranza di farli parlare, anche un macabro stratagemma. Nel cortile del forte apparve d'improvviso un picchetto armato, schierato nel fondo. Un ufficiale aveva tra le mani una benda. Qualcuno mormorò, poco divertito: « Ma allora ci fucilano ». Li chiusero in cella e poi tornarono a chiedere se avevano desideri da esprimere. Risposero che avevano solo bisogno di sapone e asciugamani. Il medesimo ufficiale inglese chiese: « E il prete, quando lo volete? ». Pronto Cabrini ribattè: « Lo vogliamo a Pasqua ». Pasqua li trovò tutti tra i reticolati dell'India. Il successo di Suda, con l'entusiasmo che propagò, fu in certo senso responsabile della spedizione di Malta, effettuata pochi mesi più tardi. Moccagatta, pur non nascondendosi le grosse difficoltà, pur conscio di tanto pericolo, ne fu forse il principale fautore. Purtroppo, si risolse in un disastro, con pesanti perdite umane e senza raggiungere l'obiettivo prefisso. Dei quarantanove uomini che vi parteciparono, venti morirono ed altri diciotto (molti dei quali feriti) caddero prigionieri, mentre i mezzi andarono perduti. L'azione di Malta deve considerarsi, in ogni modo, una delle più gloriose pagine della nostra Marina. Un'audacia e uno spirito di sacrificio totale la caratterizza. Non era contemplato, nel piano originario, che i « maiali » fossero utilizzati, ma Teseo Tesei insistè fino a tal punto da far mutare avviso ai superiori. E volle, naturalmente, esser chiamato a pilotarne uno. Ciò che gli fu concesso dopo non poche tergiversazioni, poiché il maggiore del genio navale Tesei (era stato promosso, nel frattempo) non era più un uomo integro nel suo fisico. Appariva spaventosamente provato dalle lunghe esercitazioni e dalle missioni di guerra cui aveva preso parte. Si era prodigato nel salvataggio dei superstiti del sommergibile « Iride » sulla costa cirenaica; era tornato già in salute malferma dalla spedizione contro Gibilterra dove nuotando era sfuggito alla cattura dopo il guasto al suo apparecchio; aveva, nel mese di novembre, dato tutto se stesso nell'opera di soccorso alla corazzata « Cavour » colpita dagli idrosiluranti inglesi nel porto di Taranto. Sottoposto ad una visita medica di rigore, Tesei era stato dichiarato inidoneo per sei mesi al servizio di sommozzatore per grave vizio cardiaco. I superiori intuirono che l'uomo, ormai ridotto ad un rottame, chiedeva, nel suo ascetismo sconcertante, un dono supremo. Non ebbero la forza di negarglielo. L'obiettivo dell'attacco era un grosso convoglio entrato nel « Grand Harbour », cioè nel più protetto rifugio del porto di Malta. Oltre a ciò, si teneva conto anche di un obiettivo morale. Quella base navale era ritenuta inespugnabile. Tesei stesso aveva scritto: « Occorre che tutto il mondo sappia che ci sono degli italiani che si recano a Malta nel modo più temerario: se affonderemo qualche nave, oppur no, non ha importanza: quel che importa è che noi si sia capaci di saltare in aria col nostro apparecchio sotto gli occhi del nemico: avremo così indicato ai nostri figli e alle future generazioni a prezzo di quali sacrifici si serva il proprio ideale e per quale via si pervenga al successo. » La forza impiegata, che partì da Augusta, al calar della notte del 25 luglio 1941, si componeva della nave « Diana » (un avviso veloce) al comando del capitano di fregata Di Muro, che portava nove « barchini » e un « barellino guida »; del Mas 452, comandato dal tenente di vascello Parodi e con a bordo Moccagatta, il medico Falcomatà e altri quattordici uomini; del Mas 451, comandato dal sottotenente di vascello Sciolette e ospitante complessivamente nove uomini.Quest'ultimo Mas prese poi a rimorchio uno speciale motoscafo del tipo « M.T.L. », da principio rimorchiato dalla nave « Diana », sul quale erano stati collocati due « maiali ». Appuntamento in mare, in un punto stabilito con « K », a ragionevole distanza dall'isola: poi, secondo il piano, il « Diana » mise a mare i « barchini », mollò il motoscafo speciale e invertì la rotta. Il suo compito era quello di « pendolare » in una zona presso Capo Passero fino alle ore dieci del mattino, come punto di appoggio per i reduci dall'azione. Notte senza luna, calma piatta. Alle due della notte la manovra dello « sganciamento » fu compiuta e le forze di attacco iniziarono la marcia di avvicinamento all'obiettivo. Sul « barchino-guida » aveva preso posto il capitano di corvetta Giorgio Giobbe. L'attacco doveva svolgersi nel modo seguente: alle 4.30 il « maiale » di Tesei-Pedretti avrebbe fatto saltare la ostruzione del Ponte Sant'Elmo ed i nove «barchini» (che si tenevano pronti ad una distanza di cinquecento metri) avrebbero fatto irruzione nel porto attraverso quella breccia, puntando sui bersagli. Allo stesso tempo, un secondo « maiale », pilotato dal sottotenente di vascello Franco Costa (secondo uomo il sergente-palombaro Luigi Barla) avrebbe attaccato i sommergibili ormeggiati in altro settore del porto, chiamato Marsa Muscetto. Franco Costa è l'ultima persona vivente che vide Tesei. Quando i due « maiali » furono messi a mare, l'orologio segnava le tre. L'apparecchio di Costa aveva delle difficoltà e Tesei si incaricò di metterlo in efficienza. Così, la partenza dei due equipaggi, su diverse direttrici, non potè effettuarsi che alle 3,45. Il che significava un'ora di ritardo sulla tabella prevista. Il tempo rimasto a Tesei, dato che la ostruzione doveva saltare alle 4,30 (poi l'alba incalzava), era davvero ristretto. « Presumo » egli disse a Costa « che farò appena a tempo a portare sulla rete il mio apparecchio. Ma alle quattro e mezzo la rete deve saltare e salterà. Se sarà tardi, spoletterò al minuto. » II che significava che avrebbe fatto scoppiare subito l'ordigno, rinunciando alla possibilità di mettersi in salvo. Franco Costa riferì tali parole al ritorno dalla prigionia, parole che gli erano rimaste scolpite nella memoria. Il suo « maiale », non ostante la riparazione, non funzionava a dovere e la sua missione non potè essere compiuta. Da quel momento, di ciò che è stato di Tesei e del suo compagno Alcide Pedretti, secondo-capo palombaro, nessuno sa più nulla di preciso. Gli inglesi ripescarono una maschera di respiratore con brandelli di carne e un po' di capelli attaccati. La carica di tritolo scoppiò contro l'ostruzione? Sembra di sì, a giudicare da vari indizi. Il sottotenente di vascello Frassetto avvertì sullo scafo del suo « barchino » come una frustata. E infatti tale è l'effetto delle esplosioni subacquee. Un rapporto del « Royal Malta Artillery», d'altra parte, avvalora l'ipotesi più accreditata, cioè che Tesei assolse puntualmente il suo compito. Dice, infatti, descrivendo il momento dell'attacco in superficie, che avvenne alle 4,44: « Poco prima, una sentinella della batteria Upton aveva scorto un piccolo sommergibile che doveva creare una breccia sul Breakwater Viaduct ». E accenna anche ad una esplosione. Il comandante dei « barchini », capitano di corvetta Giobbe, attendeva in ansia per dare l'ordine del via. Quei minuti dovettero sembrargli eterni. Già la notte preludeva all'aurora. L'azione non poteva essere più ritardata. Giobbe aveva sempre manifestato grossi dubbi sul suo esito. Ciò è rispecchiato anche dal diario di Moccagatta. Non aveva elementi decisivi per giudicare se il « congegno Tesei » aveva funzionato. In cuor suo. sarebbe stato propenso, nell'incertezza, a dare l'ordine subito. Ma se poi Tesei fosse stato ancora a ridosso della rete? Le esplosioni dei « barchini » lo avrebbero ucciso. Incertezza drammatica. Alla fine, stringendo davvero il tempo, Giobbe prese la decisione: « Ragazzi, forza e in bocca al lupo!... ».Secondo i suoi ordini, scattarono per primi i « barchini » di Frassetto e di Carabelli, diretti allo sfaldamento dell'ostruzione in superficie. Frassetto fu regolarmente sbalzato nella scia, dopo aver aggiustato la direzione del mezzo e fissato i timoni. Carabelli, invece, filò col suo piccolo motoscafo esplosivo fin sul bersaglio. Proprio come un « kamikaze » giapponese. Un pilastro del ponte Sant'Elmo, investito in pieno, crollò e ingombrò ancor più il passaggio con la travata metallica. Ma ormai era finita, per tutti gli assalitori. Di colpo si accesero sui roccioni del porto di Malta i riflettori, mentre le batterie della difesa aprivano il fuoco.Due minuti d'inferno, poi silenzio completo. Tutto era pronto per fronteggiare l'attacco, nell'isola. Gli inglesi disponevano del « radar » e avevano avuto,tramite l'apparecchio, la segnalazione dell'avvicinarsi sia del i Diana » che dei Mas. Così, la guarnigione era in stato di allarme da circa tre ore e i cannoni erano stati puntati subito sugli imbocchi del porto. L'elemento-sorpresa, sul quale da parte italiana si era fatto affidamento, era mancato. Un ammasso di rottami e di resti umani galleggiava attorno. Il comandante Giobbe, uditi gli scoppi, viste le fiammate dell'attacco di Carabelli e di Frassetto, visti partire gli altri « barchini », rimase ancora un po' nella sua posizione, a cinquecento o più metri dal Ponte Sant'Elmo, per cercare di capire meglio che cosa effettivamente era accaduto. Fatto segno al fuoco anche lui, si allontanò, pensando che gli obbiettivi fossero stati raggiunti. Il suo « barchino-guida » puntò verso la zona dove il Mas 452, con Moccagatta comandante in capo della spedizione, stava in attesa. Giobbe si trasferì sul Mas e fece una relazione drammatica ma piuttosto ottimista. Bisogna aggiungere che le luci dei potenti riflettori lo avevano accecato, così da non permettergli di vedere altri particolari.Tanto il Mas 452 che il Mas 451 si diressero sulla rotta del ritorno, navigando a una velocità di ventotto miglia. Quello di Moccagatta, però, lasciò la zona con un certo ritardo. Il fatto è che il comandante della spedizione non si decideva a partire, nella speranza di poter recuperare qualche superstite.
Ufficiali della base di Augusta, sulla costa siciliana.Al centro, Moccagatta prima della partenza per Malta.**********
Vittorio Moccagatta non voleva abbandonare uno dei suoi uomini in mare. E ciò fu la causa di un ulteriore bagno dì sangue. Appena il cielo si fece chiaro, la caccia inglese si alzò in volo e si dette all'inseguimento dei superstiti. Alle sei e un quarto, il Mas 452 fu avvistato. Anche la nostra caccia fece la sua apparizione: cinque apparecchi si portarono sul battello ritardatario, rimanendo in posizione di scorta. Ma gli aerei inglesi erano ben più del doppio, erano tredici. Nel duello aereo il maggior numero si impose. Tre dei nostri furono abbattuti. Il Mas 452 subì serrati mitragliarnenti. Alle prime scariche caddero Moccagatta, Giobbe e Parodi, poi Falcomatà e gli altri. Non miglior sorte ebbe l'altro Mas che si incendiò e dovette essere abbandonato.Gli inglesi, più tardi, tornando in ricognizione sul mare, avvistarono il Mas 452, ancora galleggiante, come un battello-fantasma, con tutti morti a bordo. I vivi, gli undici uomini che ebbero in sorte di ritornare a casa, erano sul motoscafo-silurante. Con quello poterono raggiungere il « Diana » che « pendolava » puntualmente al largo di Capo Passero. Un'impresa temeraria, osservano i critici militari. Malta era una fortezza munitissima, in ogni senso. L'Italia non aveva nell'isola nessun agente segreto, nessuna fonte di informazione diretta. Non si conoscevano nemmeno la dislocazione e la forza effettiva degli apparati difensivi del porto. Soltanto le fotografie degli aerei da ricognizione poterono essere prese a base della elaborazione del piano di attacco. Per di più, qualche cosa non funzionò a dovere. Era stabilito che vi fossero tre « diversivi » sotto forma di bombardamenti aerei, quella notte. Ma il primo non fu effettuato per niente, il secondo con un solo apparecchio, il terzo con due.
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